Tradizioni alimentari  del passato

 

Segnalato da Maria Rizzuto

 

 

Gastronomia

 

 

 
Un tempo, a Rizzuti, i prodotti  derivanti dalla coltivazione della terra e dall'allevamento  del maiale e di qualche altro animale rappresentavano  la principale e spesso unica fonte di sostentamento.

Gli alimenti alla base della cucina rizzutara erano:

 

 

 

 castagne

 

 

LE CASTAGNE

 

 

Il prodotto locale per eccellenza era la castagna che a secondo del tipo di trattamento a cui veniva sottoposta per essere consumata o conservata assumeva denominazioni diverse:

Vallani  - Caliate  -  Ruselle Castagne trattate con l’acqua  - Pastilli

 

 

Vallani

Castagne fresche che dopo essere state bollite per una decina minuti circa venivano mangiate calde (spesso si forava la buccia e si succhiava il frutto ammorbidito dalla cottura)

 

Caliate

Castagne fresche che dopo essere state per circa due giorni al sole ad essiccare venivano infornate. Si accendeva il forno a legna con frasche e quando questo era ben riscaldato, si ripuliva lasciando solo qualche brace  davanti alla bocca e quindi si infornavano per circa 3 ore le castagne che venivano di tanto in tanto girate con il “grastiallu”, un rastrello, a forma di mezza luna.

Le “caliate” venivano conservate  per esser mangiate così com’erano o, dopo essere state ammorbidite in acqua per qualche ora ,  bollite.

 

Ad Ottobre  qualche settimana prima che le castagne cominciassero a cadere si andava a “vrusciare e castagne”, cioè si andava a pulire il sottobosco per rendere più semplice la raccolta: si tagliava l’erba e,  con i “grancelle” (rastrelli), si raccoglievano le foglie e i ricci caduti l’anno prima in cumuli che poi venivano bruciati.

 

Il sotto bosco di castagni prima della pulitura

 

  Le castagne così trattate venivano anche barattate in cambio di alimenti non presenti nel territorio.Lo scarto delle “caliate” era dato in pasto ai maiali.

 

Ruselle (Caldarroste)

Castagne arrostite sul fuoco. Dopo aver praticato un’incisione sulla buccia affinché non scoppiassero, le castagne venivano messe nella “rusellara” (padella dal manico lungo, con il fondo bucherellato) e arrostite sul fuoco . La “rusellara” veniva agitata di frequente in modo che rosolandole uniformemente si potesse ben cuocere l’interno del frutto.

Talvolta, prima della “rusellatura” le castagne si facevano essiccare  al sole per circa un giorno, in tal caso si cuocevano più presto ed avevano un gusto diverso.

 

Rusellara

 

Le castagne erano di fondamentale importanza nell'alimentazione delle famiglie rizzutare e quelle che non potevano disporne di un quantitativo adeguato cercavano di procurarselo chiedendo a qualche proprietario terriero “u tiarzu”, cioè chiedendo di poter cogliere le castagne nei loro boschi in cambio della terza parte del raccolto.

I raccoglitori erano controllati “do fatture” (dal fattore) che curava gli interessi fondiari dei proprietari del bosco.

Le castagne  raccolte venivano misurate attraverso dei contenitori tarati secondo delle unità di misura locali: la “mezzarola” (recipiente che  conteneva  circa 22 kg di castagne), il “tumminu” uguale a 2 “mezzarole” e il "panaro"di grandezza variabile, c’era quello uguale

Castagne trattate con l’acqua

Castagne scelte che venivano messe per due settimane in un

contenitore a bagno con dell’acqua di cui si effettuava un ricambio  all’inizio della seconda settimana (se vi era qualche castagna non buona questa galleggiava e veniva eliminata). Dopodiché si scolavano e si facevano asciugare in un luogo ventilato e fresco nella sabbia asciutta o, avvolte in un panno (in modo da assorbire l’umidità), in un contenitore di legno.

Durante il corso dell’anno ogni 20 giorni,  per evitare la muffa, si controllava lo stato di conservazione e si  cambiava il panno asciugandole.

Con questo trattamento  le castagne si mantenevano fresche e si potevano conservare per più mesi, durante i quali potevano essere mangiate crude o  “rusellate”.

 

   ad 1/4 di “mezzarola”, che generalmente era usato dalle persone adulte e conteneva circa 5,5 kg di castagne e quello uguale ad 1/8 di “mezzarola”che conteneva circa 2,75 kg di castagne  ed era usato dai bambini.

"mezzarola"

"panaro"

Pastilli

Castagne  sottoposte a dei particolari trattamenti che le rendevano 

adatte alla successiva trasformazione in farina.

Le castagne, dopo esser state essiccate nelle “caselle”, costruzioni adibite a tale scopo, venivano disposte nello “scigu”, grosso contenitore inizialmente in legno (spesso un tronco scavato) poi anche in calcestruzzo, e sottoposte alla così detta “zucculiatura” cioè al calpestio con dei particolari zoccoli dentati “zuccoli”,  procedura che permetteva di separare il “pastillu” dalla buccia esterna. Successivamente, questa tecnica fu sostituita da un'altra consistente nell'inserire le castagne in un sacco che  preso alle due estremità da due uomini veniva battuto energicamente  su  un “cippu” (tronco di legno disposto verticalmente). A completamento di  tali trattamenti le castagne  venivano messe in un particolare settaccio “u’ crivu”. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Casella de za Carmena”

Le “caselle”, ovvero gli essiccatoi di castagne, erano delle casette con due locali sovrapposti costruite nei boschi in prossimità dell'abitato; al centro del piano

 

"zuccoli"

" crivu"

terra si accendeva un piccolo fuoco, il piano di calpestio del secondo livello era fatto di listelli distanziati di non più di un centimetro.

"Casella do Cariglietto" -  Listelli del piano

superiore visti dal basso

Le castagne si disponevano sul letto di listelli del piano superiore e venivano essiccate dal fumo del fuoco che doveva ardere ininterrottamente per 1 mese e mezzo.

Al piano superiore vi era una finestra attraverso 

la quale venivano immesse le castagne

Se le castagne erano molte allora si faceva una prima “lettata”, cioè si stendeva un primo strato di castagne che non appena cominciava ad essiccarsi veniva sceso  al piano terra e sostituito con un altro di castagne fresche, quando anche  quest'ultimo raggiungeva il grado di essiccazione del primo veniva a questo rimescolato e quindi lasciati insieme a completare l'essiccazione.  

Chi non aveva una “casella” chiedeva “u tiarzu” a chi l’aveva, cioè per avere un sacco di “pastilli” doveva portare tre sacchi di castagne fresche.

 

"quartara"

 

Seguiva quindi la "quartiatura" cioè la ripulitura del "pastillu" dalla pellicola interna "purpitu", tale processo veniva attuato agitando le castagne in una particolare cesta detta “quartara”.

In tempi più recenti le operazioni di “zucculiatura” e “quartariatura”  venivano svolte da una macchina, la trebbia.

Il proprietario della trebbiatrice prestava la macchina a chi non l’aveva e riceveva in compenso dal richiedente una quantità di “pastilli” che veniva stabilita prima del lavoro.

Si passava infine ad “allijare i pastilli”(controllare i pastilli): si scartavano quelli che erano mezzi mangiati dai vermi e si mettevano da parte  gli eventuali “turduni”  (“pastilli” morbidi dal sapore dolciastro  che venivano riconosciuti dal  colore più acceso) i quali si infilavano come una collana (‘u filaro) e venivano mangiati dopo essere stati infornati per qualche minuto.

Quasi tutti i pastilli,  venivano inviati ai mulini per ricavarne la farina che veniva utilizzata per fare i dolci e il pane di castagne, solo una piccola quantità  veniva conservata per fare i “pastilli alla pignata” (dopo essere stati in acqua per un ora e mezza, si mettevano a bollire con un pizzico di sale nella “pignata” )

Lo scarto veniva dato ai maiali o, dopo essere stato “sprisuliato” (triturato), alle galline.

"pignata" dei pastilli

 

 

 

 

 

La carne del maiale

Il grano

I legumi

I latte e i suoi derivati

L'uva e i suoi derivati

 

 

 

 

 

la carne

La carne del maiale

La carne di maiale e i suoi derivati era nell’alimentazione dei rizzutari un’altra fonte di primaria importanza.

Dal maiale, che era allevato in casa e veniva ucciso durante le festività tra la fine Dicembre e gli inizi di Gennaio  si ricavava:

Frisuli  -  Suzzu  -  Sazizze e Supressate

Capeccualli, Prisutti, Pancette e Vuahiulu

Ogni famiglia allevava almeno un maiale.

 

 

Il pasto dei maiali era costituito da:

 

  •      castagne e ghiande fresche

  •      lo scarto delle “caliate”

  •      lo scarto  dei “pastilli”

  •      la “vrodata”

 

Ogni giorno si preparava la “vrodata”, quando si scolava la pasta l’acqua veniva conservata e poi in questa si passavano i piatti in modo tale da togliere il condimento. Quest’acqua costituiva la “vrodata” a cui si aggiungevano gli avanzi e, se il contenuto era poco si aggiungeva qualche patata bollita e schiacciata.

 

 

 

 

 

 

 

Frisuli ( miscuglio denso di acqua e grassi ottenuto dalla lunga bollitura di pezzi di carne)

Si mettevano varie parti del maiale, anche pezzi di osso, a bagno per un giorno, cambiando l’acqua almeno due volte, quindi,  si poneva la carne in una pentola molto grande, la si copriva con dell’acqua e la si faceva cuocere mescolando di tanto in tanto e allontanando la schiuma con un cucchiaio. Quando l’acqua si dimezzava, si metteva tutto a riposo per un’ora circa. Dopo, si aggiungeva il sale e si rimetteva a cuocere finché il grasso non si scioglieva completamente. Infine si separavano le così dette “frittule” cioè le parti solide (carne,  ossa e  pelle “cuari”) dal miscuglio denso di acqua e grassi semisciolti , chiamato “frisuli”. I “frisuli”  venivano versati in  barattoli e conservati.

Suzzu (pezzi di carne ricoperti dalla gelatina ricavata dalla cottura degli stessi)

Per la realizzazione del “suzzu” si usavano soprattutto le zampe del maiale, la coda, varie parti della testa, “cuari” (pelle) e qualche altro pezzo di carne.  Si mettevano tutti insieme a bagno per un giorno, cambiando l’acqua almeno due volte. Venivano, quindi,  posti in una pentola con acqua e allontanando la schiuma con un cucchiaio, si portavano ad ebollizione.

Quando erano cotti venivano disossati e sistemati in  vasetti.

Con l’acqua usata per bollire la carne si faceva la gelatina, mettendo in una pentola due parti della stessa acqua ed una di aceto, si lasciava bollire e poi si versava nei vasetti in modo da coprire completamente la carne.

   

Sazizze e Supressate (Salsicce e soppressate caratteristici insaccati della cucina calabrese)

Dopo aver triturato la carne con i coltelli si salava, si aggiungeva qualche aroma e quindi si insaccava nelle interiore precedentemente ben lavate alla ”jumara”.

Le salsicce erano realizzate con l’intestino tenue  che, dopo esser stato riempito, veniva intrecciato in modo da formare dei pezzi “stuacchi de sazizza” di circa 15-20 cm. Le soppressate erano fatte con tratti di 15-20 cm dell’intestino crasso che,  dopo essere stato riempito, veniva strozzato al centro in modo tale da ottenere 2 “supressate”.  capecualli

Sazizze” e  “supressate” dopo essere state fermate con lo spago erano appese “mpendute” in un luogo ventilato, spesso “allu tavulatu” (soffitta) dove veniva acceso un piccolo fuoco per facilitarne l’essiccazione.  

Sazizze

Supressata

 

Capeccualli, Prisutti, Pancette e Vuahiulu

I “capeccualli”, le “pancette”, il “vuahiulu”, parte del collo compresa tra il mento e il torace, e  i “prisutti”, erano messi sotto sale, i primi tre per 3 giorni, i “prisutti” per circa 20-30 giorni. Dopo la salatura si lavavano prima con acqua e poi con aceto e quindi si pepavano.  “Vuahiulu”, “pancetta” e “prisutti” erano, quindi, appesi per essere essiccati,  mentre i “capeccualli” venivano insaccati in una pellicola costituita dalla pelle interna che sta nel torace, legati stretti con uno spago e infine, dopo essere stati messi “allu suppriassu” (sotto peso)  per 1 o 2 giorni venivano, appesi.

Capeccuallu

 

 Le castagne

Il grano

I legumi

I latte e i suoi derivati

L'uva e i suoi derivati

 

 

 

 

 

 

la farina

Il grano

Un  altro prodotto molto importante nell’alimentazione rizzutara era la farina di grano da cui si ricavavano pane e pasta, cibi fondamentali nella cucina contadina del passato.

La produzione del grano richiedeva tempo ed impegno non indifferenti.

La semina avveniva in Ottobre, verso Marzo-Aprile si ripuliva il coltivato dalle erbacce,  a Luglio si mieteva.

La spighe, tagliate  con la falce venivano riunite in grossi mazzi ”gregne” che erano affastellati in covoni nell’“aria” (aia), uno spiazzo tondeggiante. Per la trebbiatura, cioè per la separazione dei chicchi dalla paglia , venivano utilizzati dei buoi che, girando intorno all’”aria”, pestavano con  una grossa pietra legata allo “iuvu” (giogo) il grano sistemato al centro. Dopo diversi giri i chicchi si staccavano dalla spiga.

Quindi si “ventuliava” cioè si sollevava con dei rastrelli la paglia che veniva portata via dal vento lasciando a terra il grano. A questo punto il grano veniva  messo nei sacchi e  portato al mulino dove veniva macinato,  mentre la paglia raccolta ed imballata era utilizzata per ricoprire il suolo del ricovero degli animali.

Nel passato il pane era fatto in casa

 

 Le castagne

La carne del maiale

I legumi

I latte e i suoi derivati

L'uva e i suoi derivati

 

 

 

 

 

 

I legumi

I Legumi

Tra i prodotti dell’orto un posto di rilievo avevano i legumi che prestandosi ad una facile conservazione potevano essere  consumati durante l’intero anno.

I legumi prevalentemente coltivati erano:

Fave e piselli che venivano piantati a dicembre e raccolti a giugno.

“Surache” (fagioli) e ceci  che erano seminati ad aprile-maggio e raccolti ad agosto-settembre.

 

"Surache" (Fagioli)

 

I lupini che venivano piantati ad ottobre e raccolti ad agosto.

I legumi erano consumati sia appena raccolti, ossia freschi, sia conservati dopo essere stati essiccati, in tal caso prima di essere cucinati venivano tenuti a bagno per circa sei ore.

Per la conservazione i legumi si lasciavano prima essiccare sulla pianta e poi distesi al sole dopo colti.

I lupini venivano bolliti e dopo, per farli addolcire, si mettevano in un sacco sotto l’acqua corrente per 7 o 8 giorni,  quindi venivano mangiati freschi con il sale oppure venivano essiccati e dati agli animali.

Lupini

La coltivazione dei legumi e degli orti in genere richiedeva una adeguata irrigazione e pertanto  venivano stabilite delle regole per consentire  di utilizzare equamente l’acqua pubblica de “l’acquaro”,  il piccolo ruscelletto  proveniente dalla sorgente della “prise” situata a nord dell’abitato.

A tal fine il territorio da irrigare era  diviso in cinque zone denominate Vurpi, Durani, Ciccariali,  Mastru Andria, Ferruni ed ogni anno, quando “se iettavanu i zanzari” (iniziava a fare caldo) , si effettuava un sorteggio per stabilire i turni d’irrigazione, cosicché il gruppo primo estratto cominciava ad innaffiare il giorno successivo, il secondo dopo due giorni e così via. Inoltre poiché in ogni zona vi erano diversi terreni appartenenti a diverse famiglie, l'orario di irrigazione di ciascun orto si faceva variare a rotazione in modo che ogni coltivatore poteva usufruire dell’acqua per irrigare non sempre alla stessa ora, ma  a volte il mattino, a volte di pomeriggio e a volte di notte.

“Il fosso dell’acquaro”:  breve canale sotterrano

scavato per convogliare le acque del

ruscelletto verso la zona sud del paese

 

 Le castagne

La carne del maiale

Il grano

I latte e i suoi derivati

L'uva e i suoi derivati

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

latte

Il Latte e i suoi derivati

 Ogni famiglia rizzutara  oltre al maiale possedeva almeno un altro animale: una pecora, una capra o un mucca, da cui  ricavava il latte che veniva sia bevuto fresco sia utilizzato per produrre ricotte e formaggi.

Il formaggio si preparava mettendo sul fuoco una pentola con del latte fresco e un po’ di caglio e si mescolava  fino a quando non coagulava. Quindi, si prendeva con la schiumarola la parte addensata e la si metteva nelle “uscelle”(cesti) per darle forma: il formaggio era fatto!

 

Per ottenere la ricotta si aggiungeva del latte al siero avanzato  dalla preparazione del formaggio e si metteva il tutto a fuoco lento, (si doveva evitare che il composto andasse in ebollizione, magari aggiungendo dell’altro latte) appena si formavano dei grumi schiumosi si raccoglievano,  si ponevano nelle “uscelle” e si lasciavano qualche tempo a raffreddare, dopo di che la ricotta era pronta per essere mangiata.

 

Uscelle

 

 

 

 

 Le castagne

La carne del maiale

Il grano

I legumi

L'uva e i suoi derivati

 

 

 

 

 

 

uva

 

L'uva e i suoi derivati

Grappoli d'uva Fragola

 

Un tempo ogni rizzutaro aveva nel proprio orto un pergolato d’uva. Per lo più l’uva coltivata era quella  fragola perché più adatta al clima del luogo.

Ogni anno dalla raccolta e dalla lavorazione dell’uva si ricavava:

Vino - Vino cotto - Mostarda - Aceto

Vino - Dall’uva fragola si otteneva il chiariallu”, un vino piuttosto  leggero che, grazie al suo potere dissetante, era particolarmente  gradito ai contadini i quali, affermando che aveva la capacità di “asciugare li suduri”, lo portavano sempre con loro quando andavano a zappare i poderi.

Per realizzare altre qualità di vino si ricorreva all’acquisto di uva di Sicilia, di Cirò (KR) o di Donnici (CS) in quanto l’uva, sia bianca che rossa, che maturava a Rizzuti era poco zuccherina e pertanto il vino da essa ricavato non riusciva a raggiungere una adeguata gradazione alcolica.

La prima fase di preparazione del vino, dopo la raccolta, era la pigiatura. Un tempo i grappoli  erano riversati nelle tinozze e venivano pigiati a piedi scalzi, poi questa pratica è stata sostituita dalle pigiatrici a manovella.

Il prodotto macinato prendeva il nome di mosto, questo rimaneva all’interno dei tini circa 48 ore (per ottenere una colorazione più scura si lasciava riposare più tempo, mentre per una colorazione chiara, minor tempo). La gradazione alcolica dipendeva dalla quantità di zucchero presente all’interno dei chicchi d’uva.

Seguiva la fase di torchiatura.

Il mosto veniva messo all’interno del torchio e spremuto in modo tale da separare la parte liquida dalle vinacce. La torchiatura richiedeva una grossa fatica, e per ottenere la maggior quantità di prodotto, si lasciava riposare il mosto all’interno del torchio per un paio d’ore e poi si riprendeva a stringere.

Il mosto così torchiato veniva depositato all’interno di grossi tini dove iniziava a bollire.

Alcuni, finita la torchiatura, lo travasavano all’interno di damigiane che lasciavano aperte e che di tanto in tanto ricolmavano con dell’altro mosto in quanto quest’ultimo schiumeggiando toglieva le impurità ma diminuiva in volume.

Quando il mosto cessava di ribollire si tappavano i contenitori e lo si lasciava riposare; in tal modo la fermentazione continuava lentamente sinché tutto il mosto, depositando le impurità (fecce) sul fondo dei recipienti, si trasformava in vino . Si  diceva che l’11 Novembre, a San Martino, ogni mosto diventava vino, ed è, infatti, proprio in questo periodo che era possibile cominciare a degustare il prodotto, ma era solo a Gennaio che il vino raggiungeva una buona maturazione.

Prima  di essere utilizzato a tavola il vino doveva essere travasato ed era bene che ciò fosse fatto durante il  primo quarto di luna calante, dopo la prima luna piena di Gennaio e possibilmente in una giornata  limpida e senza nuvole altrimenti il vino si sarebbe “’ntrughulatu” (intorbidito).

Una volta travasato il vino era conservato in contenitori ben chiusi e in locali non molto caldi, non esposti alla luce del sole e con temperatura costante.

 

 

 

Tina (tino)

Qui si metteva l’uva che,  dopo esser stata pigiata, si lasciava macerare finché non iniziava a fermentare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Torchio

Appena l’uva iniziava a fermentare veniva passata nel torchio per essere spremuta e per separare il liquido dai drappi.

 

 

Vutte (botte)

 

 

Damigiana

 

Il vino si conservava nelle botti e nelle damigiane.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vino Cotto - Era uno sciroppo  che si preparava mettendo a bollire  il mosto d’uva appena pigiata mescolato a dello zucchero. La miscela, di tanto in tanto mescolata, veniva lasciata sul fuoco sino a quando lnon si riduceva della terza parte.

Raffreddato il vino cotto veniva conservato in bottiglie ed utilizzato per glassare dolci o per fare la “scirubetta”(neve aromatizzata)

 

Vino cotto

 

Mostarda - Era  una marmellata che si otteneva mescolando con dello zucchero le bucce d’uva fragola precedentemente cotte e passate nel passaverdure . La marmellata di mostarda si conservava in vasetti di vetro e veniva usata sia come farcitura per dolci sia per essere mangiata, per colazione o per merenda, spalmata sul pane.

Per visualizzare la ricetta clicca qui

 

 

Mostarda

 

 

Aceto - L’aceto, utilizzato sia per condire che per conservare vari cibi, si otteneva facendo proseguire per circa due anni la fermentazione del vino.

 

   
     

 Le castagne

La carne del maiale

Il grano

I legumi

L'uva e i suoi derivati